Quando nacque, l’uomo era puro:
senza pregiudizi, senza peccato, senza vizi.

E senza vestiti.

Poi venne il progresso e l’uomo, forse perché colpito dal freddo o dai rovi (il pudore fu inventato più tardi), cominciò a vestirsi: prima con una pelle di pecora, poi una tunica, e via via sviluppando l’arte della sartoria giunse a veri e propri abiti.

In seguito scoprì che, oltre che a proteggerlo, un abito poteva essere anche utilizzato con opportune modifiche come contenitore di piccoli oggetti di uso corrente.
E così monete, chiavi, fazzoletti e merendine cominciarono abitualmente ad essere lasciate cadere in ciò che noi oggigiorno chiamiamo tasche.

Ma fu solo più tardi che l’uomo capì veramente l’importanza di questa nuova invenzione: quando iniziò a cercare i propri oggetti nelle suddette custodie, infilando le mani trovò, invece di
chiavi o monete, una posizione rilassante, comoda e totalmente nuova.

Le dita al caldo, il carpo dolcemente appoggiato al bordo di stoffa rinforzata, il palmo a contatto con la propria coscia davano una piacevole sensazione, come la protezione di un piccolo guscio. Prontamente, tutto il resto del corpo intraprese una lenta ma integrale metamorfosi, per compartecipare alla gradevole novità: le spalle si incurvarono dolcemente, lasciando i gomiti liberi a un’inerzia quasi inesistente; la schiena si inarcò e il bacino si protese in avanti, per controbilanciare.

Una gamba, dopo aver convinto l’altra a raddrizzarsi per sostenere tutto il peso, si alzò leggermente
poggiando solo la punta del piede, e infine anche il collo si rilassò.

L’uomo aveva appena trovato un nuovo atteggiamento, un modo di essere che gli era sempre stato precluso dalla propria purezza e semplicità.

Quindi l’uomo aveva le tasche, qualunque uomo aveva le tasche, o meglio, possedeva le tasche.
Il concetto di “possesso” viene normalmente associato, oggi più che mai, a beni estranei all’essere umano, perlopiù artificiali e di valore attribuito da leggi di mercato piuttosto che dall ‘essenza stessa
dell’oggetto.
Sovente, li classifichiamo nella categoria degli accessori.

Ora, una tasca può essere definita un accessorio di un abito, esattamente come l’abito stesso è un nostro accessorio. In due parole, consideriamo la tasca un accessorio di secondo grado.
Lo dimostra il fatto che quasi nessuno entra in una boutique attratto semplicemente dalle tasche di un vestito, bensì dal taglio, dal colore o da effimere questioni di moda.
Ciononostante, nessuno di questi valori influisce visibilmente nella nostra postura o nel nostro
comfort.

D’altro canto, le tasche prodotte individualmente dagli HSM superavano olisticamente queste osservazioni, per motivi legati alla loro propria genesi.

Dal progresso arriviamo dunque all’evoluzione.
La cosa ha comportato non poche difficoltà, in quanto la tasca era stata anatomicamente considerata dalla natura come un organo completamente incoerente con il resto del corpo umano.
Anche se esteticamente assomigliava ad altre aperture come la bocca, la vagina, l’ano o il naso (che in alcuni casi potevano anche contenere le mani, anche se un po’ meno comodamente) le discrepanze erano notevoli.

Innanzitutto, la sua consistenza interiore era uguale o comunque molto simile a quella esteriore,
senza differenza di umidità né di viscosità. Neppure lo sbalzo termico era così evidente: se c’era, era perché questo artificio veniva fabbricato con il pelo più all’interno che all’esterno (altra differenza).

Una tasca, inoltre, non possiede una propria produzione escretoria come tutti gli altri buchi,
peccando quindi di una capacità espressiva indipendente e di una funzionalità purificatrice.
Una tasca, pensava la natura, avrebbe privato il corpo della propria integrità, potendo contenere
oggetti estranei, addirittura sintetici (e tralasciamo le volgarità relative al medesimo utilizzo di alcuni orifizi naturali)… Per di più, tutti i suddetti orifizi hanno sempre svolto perfettamente
la propria funzione seppur posizionati nelle più disparate angolature, mentre una tasca, per concezione archetipica, necessita di una verticalità e di una direzionalità ben precise.

Ma la differenza maggiore era la sua limitatezza intrinseca: il fondo.
Ognuno degli altri orifizi può considerarsi infinito: tutte le aperture del nostro corpo sono in qualche modo collegate tra loro, dentro il corpo, al corpo stesso. Sono la dimostrazione attiva che un corpo è un’unica entità, attraversata da canali che comunicano sia con l’interno che con l’esterno, senza un inizio o una fine.
Penetrando uno di questi buchi possiamo, attraverso strettoie, labirinti, valvole e diramazioni,
raggiungere qualunque organo del corpo, per poi uscire da un’altra parte attraverso un sistema di comunicazione esterno – interno – esterno praticamente illimitato.

Una tasca invece ha un fondo ben chiuso, e spesso molto prossimo al suo ingresso.
Si tratta quindi di un individuo a sé stante, un elemento estraneo che, per quanto integrato, potrebbe sembrare un optional, se non addirittura un parassita.
E la natura umana, per favorire il corpo attraverso tutti i benefici di questo alieno, ha dovuto prepararsi ad accettare questo componente totalmente nuovo tra le già numerose parti che ci
compongono.

Si narra che alcuni illuminati avessero già provveduto alla modifica dei propri fianchi ricorrendo alla chirurgia plastica, saltando a piè pari il trauma dell’evoluzione naturale. Ma il loro atteggiamento di fronte a questa diversità non si può certo paragonare a ciò che provarono i primi esemplari del nuovo stadio evolutivo.

Questi “precursori” furono in un certo modo beneficiati dalla facoltà di scelta, quella decisione
non certo facile (ma rimediabile) di correggere una parte del proprio corpo grazie ad un’operazione.
La particolare inclinazione della personalità (esibizionismo, pigrizia, egocentrismo, purezza, insicurezza, eccetera) elevò i falsi mutanti al rango di geni o di stolti, a seconda dei punti di
vista.
L’artificiosità del cambiamento comporta infatti un impatto ben preciso, sia sulla persona stessa che
sugli altri (il cui giudizio, come ben sappiamo, ha una forte influenza sul comportamento di chiunque).

Una deformazione fisica, quando piacevole o utile, viene perlopiù accettata dall’uomo comune (quando non è invidiata e quindi provoca l’effetto contrario), e viene invece accolta o sopportata se considerata inestetica o limitativa, a causa dell’incipiente e meschino pietismo tipico dei popoli civilizzati.

I primi esemplari naturali di HSM subirono una reazione differente.
Additati come scherzi di natura imputabili ai soliti luoghi comuni (demonizzazione delle
centrali nucleari o del buco nell’ozono, supposti incroci tra consanguinei, maledizioni politeistiche),
incutono tuttora un timore reverenziale simile a quello provocato da molte divinità lunari, unito
a un odio razziale di forte spessore.

Perché sin dalla notte dei tempi, ogni specie in via di estinzione (Homo Sapiens Sapiens, per intenderci) riconosce geneticamente quella che la sostituirà.
E la teme.

Homo Sapiens Marsupialis

Arte Digitale

Serie: Dee – scopri di più

Fotoritocco digitale, stampa su pannello a dimensioni naturali.

Studio sulla mancata evoluzione del corpo umano.


 Anno: 1998

 Misure: 90×200 cm

 Tecnica: Stampa inkjet su carta di tipo fotografico, pannellatura

 Foto realizzate da Taky Studio

 Status: Collezione privata


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